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martedì, Marzo 19, 2024

Papa Giovanni XXIII di Serra d’Aiello: tre inchieste e i retroscena di un fallimento

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Il Sostituto Procuratore della Repubblica Eugenio Facciolla
Il Sostituto Procuratore della Repubblica Eugenio Facciolla

di Roberto Ormanni –
Dal piccolo paradiso all’inferno. La storia non solo giudiziaria dell’istituto calabrese dove sono scomparsi milioni di euro. E dodici persone.

Oltre cento milioni di euro “bruciati” in quindici anni, dodici persone scomparse e almeno due casi di omicidio colposo che qualcuno ha tentato di far passare per morte naturale. Ma anche una decina di morti sospette, centinaia di assunzioni imposte dalla politica locale, un sacerdote che “dirotta” centinaia di migliaia di euro dai fondi per l’assistenza dei ricoverati all’assistenza a se stesso. E poi ancora documenti falsi per ottenere rimborsi dalla Regione, interessi privati pagati con denaro pubblico, lettere di protesta e denunce ignorate per anni, coperture e protezioni.

ISTITUTO PAPA GIOVANNI XXIII DI SERRA D’AIELLO – COSENZA
Sono solo alcuni dei “peccati” che macchiano la coscienza dell’istituto Papa Giovanni XXIII di Serra d’Aiello, in provincia di Cosenza, che le reti gettate dal pubblico ministero della procura di Paola, Eugenio Facciolla, hanno tirato su dalla palude maleodorante della gestione di una struttura che in vent’anni si è trasformata da piccolo paradiso in girone dell’inferno. Tre inchieste, la prima chiusa nelle scorse settimane con 27 richieste di rinvio a giudizio. Apre la lista degli imputati don Alfredo Luberto, il sacerdote a lungo presidente del Papa Giovanni, arrestato per una lunga serie di illeciti finanziari nell’amministrazione dell’istituto. Il sacerdote che, come Imelda Marcos, la moglie dell’ex dittatore centroamericano, don Alfredo Luberto collezionava scarpe. Donna Imelda ne possedeva migliaia, il sacerdote poco più di cento. Ma per chi indossa – o dovrebbe indossare – l’abito talare, è sempre un bel numero.

EUGENIO FACCIOLLA; IL MAGISTRATO DEL CASO PAPA GIOVANNI XXII
Tre anni fa il pm Eugenio Facciolla, dopo aver tentato più volte di acquisire documenti sull’amministrazione del Papa Giovanni delegando la Guardia di Finanza per normali visite ispettive, è stato costretto ad organizzare un blitz, in piena notte: l’istituto si trova in cima ad una collina, e guarda la valle sottostante come una fortezza medievale. Gli investigatori venivano “avvistati” ben prima che arrivassero e all’occorrenza tutto ciò che c’era di compromettente, al Papa Giovanni, veniva messo al sicuro prima che i finanzieri arrivassero alla porta. Così, come se si trattasse di stanare latitanti, il magistrato è ricorso ad un’operazione in stile militare. E ha scoperto che il Papa Giovanni XXIII, negli ultimi anni, somigliava più a Buckenwald che ad una casa di cura.

UNA FABBRICA DI DISPERAZIONE NATA DALLA SPERANZA DI DON GIULIO STESTI OSSEO
La storia dell’istituto di Serra d’Aiello risale agli anni Cinquanta: un sacerdote, don Giulio Sesti Osseo, crea una piccola struttura che ospita poveri e anziani. La politica locale impiega poco a capire che può diventare un utile serbatoio per assunzioni e, dunque, consenso elettorale. Bisogna però “accreditarlo” presso la pubblica amministrazione. Così negli anni Settanta il Papa Giovanni viene riconosciuto da un decreto del Presidente della Repubblica come Fondazione di culto e religione. Comincia a crescere e vent’anni più tardi comprende un’azienda agricola con 100 ettari di terra, ospita quasi mille persone e ha circa 1.600 dipendenti.

ISTITUTO PAPA GIOVANNI XXIII, UNA MINIERA D’ORO
E’ una miniera d’oro. Beninteso, una fortuna per le famiglie che hanno bisogno di affidare a qualcuno parenti non autosufficienti, magari patologie psichiatriche, ma anche semplicemente nonni che non possono più stare in famiglia per ragioni economiche o di organizzazione. I ricoverati che percepiscono una pensione spesso la girano al Papa Giovanni in cambio di cure, vitto e alloggio. Per i più poveri l’istituto incassa, come prevede la legge, i contributi per l’assistenza. Poi ci sono le cure mediche: il servizio sanitario regionale rimborsa le spese sostenute dal Papa Giovanni. Tutto, insieme con lasciti e donazioni private, finisce su un conto corrente che, dopo l’uscita di scena del fondatore don Giulio, viene gestito personalmente dal presidente don Alfredo Luberto. Ma già nel 1995 ha inizio il tracollo.

DON ALFREDO LUBERTO TRASFORMA IL PAPA GIOVANNI XXIII IN UN “LAGHER”
Molti di quei dipendenti, spesso assunti in cambio di sostegno elettorale o semplicemente per una pia opera di carità verso famiglie in difficoltà, in realtà non lavorano. Le spese aumentano e comincia a moltiplicarsi la documentazione fittizia per ottenere rimborsi sanitari. Cure mai prestate, interventi inventati, lavori di ristrutturazione “gonfiati”. Il pm, oggi, non ha trovato un solo registro presenze, una pianta organica effettiva, turni di servizio. Ha trovato invece fatture per opere edilizie eseguite a casa del presidente don Alfredo Luberto e pagate con i fondi dell’istituto (o grazie ai debiti del medesimo). Ognuno faceva come gli pareva. Molti dipendenti, hanno accertato gli investigatori, avevano il secondo e anche il terzo lavoro, naturalmente in nero. Perfino i ricoverati in istituto, in alcuni casi, durante il giorno venivano lasciati liberi di andarsene in giro per il piccolo paese di Serre. Uno addirittura si occupava di guardare le pecore di un allevatore locale. E veniva pure pagato. In nero ovviamente. Stando così le cose era evidente che prima o poi l’ingranaggio si sarebbe inceppato. Si accumulano i debiti, si evidenziano le difficoltà di gestione.

CURIA ARCIVESCOVILE ALLONTANA DON GIULIO SESTI E CROLLA TUTTO
Nel 2005 la Curia arcivescovile di Cosenza allontana don Giulio Sesti dalla gestione (che onestamente aveva evidenziato come non si sarebbe potuti andare avanti così) e crea un consiglio d’amministrazione con l’incarico di avviare un piano di risanamento per un deficit che, all’epoca, viene quantificato in circa 15 milioni di euro tra stipendi non corrisposti, forniture non pagate e contributi Inps mai versati. Il risanamento non viene mai avviato e cominciano invece a degenerare anche le condizioni igieniche. Intanto nel 2004 la Regione aveva bloccato i nuovi ricoveri continuando però, naturalmente, a pagare prestazioni e contributi per chi era già ricoverato.

I LAMENTI SI TRASFORMANO IN DENUNCE ALLA POLIZIA GIUDIZIARIA
E’ proprio tra il 2004 e il 2005 che le proteste dei ricoverati e delle loro famiglie non restano più voci di corridoio ma vengono alla luce, fino alle denunce formali alla polizia giudiziaria.

L’ARCIVESCOVO DI COSENZA GIUSEPPE D’AGOSTINO DURAMENTE CRITICATO
L’allora vescovo di Cosenza, monsignor Giuseppe Agostino, ci tiene a dare segnali di “intervento”. A Pasqua 2005 organizza la via crucis proprio a Serra d’Aiello, ma nonostante ciò che appare come un rinnovato spirito di controllo e partecipazione diretta alla vita, e alle difficoltà, del Papa Giovanni, monsignor Agostino, sempre nel 2005, viene duramente criticato dai parroci del territorio durante il mini-sinodo diocesano.

L’ARCIDIOCESI DI COSENZA HA CONTINUATO A DELEGARE DON ALFREDO LUBERTO
Il pubblico ministero scoprirà, poi, che nonostante l’apparente interessamento diretto, la Curia di Cosenza, in quel periodo, continuava a delegare pieni poteri di gestione al presidente del Papa Giovanni, don Alfredo Luberto. Le note negative, le lettere di protesta e le denunce non sono bastate a indurre ad una vigilanza più sostanziale e meno formale.

IL MAGISTRATO SCOPRE LA PISCINA PER LA RIABILITAZIONE DIVENTATA UNA DISCARICA
L’inchiesta della procura della Repubblica di Paola scopre “pentoloni” che erano in molti a sperare restassero ben chiusi. In occasione di uno dei primi sopralluoghi al Papa Giovanni gli investigatori chiesero di vedere la sala riservata alla fisioterapia e alla riabilitazione dove una piscina avrebbe dovuto servire per la rieducazione motoria in acqua. I dipendenti dell’istituto hanno tentato in tutti i modi di convincere il pubblico ministero che non era il caso di entrare anche lì. Una volta dentro, la scoperta: la piscina era senz’acqua da anni ed era diventata una discarica per ogni genere di rifiuti.

Di notte, oltre 400 ricoverati erano sorvegliati e accuditi da non più di tre persone.

FATTURAVANO VETRI DI SICUREZZA E METTEVANO CARTONI ALLE FINESTRE
C’era chi mangiava a terra, tra feci e urine. Alle finestre cartoni invece dei vetri (ma dalle fatture risultavano i lavori per la sostituzione dei vetri secondo i più moderni criteri di sicurezza: alcuni operai hanno raccontato al pm che alcuni di quei lavori erano stati fatti davvero, ma nell’abitazione del sacerdote-presidente). E i pazienti con problemi psichiatrici abbandonati a se stessi. Liberi di entrare e uscire come avessero voluto. Uno, con mania autolesionistiche, aveva l’abitudine di dare testate sul muro: l’assistenza che gli veniva prestata consisteva nell’avergli legato in testa un casco da motociclista. E quest’uomo viveva con il casco.

LE ACCUSE: ASSOCIAZIONE A DELINQUERE, TRUFFA, RICICLAGGIO, ABBANDONO DI INCAPACI E ALTRO
Nei prossimi giorni il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Paola, Maria Luisa Arienzo, dovrà decidere sulle prime 27 richieste di rinvio a giudizio. Tra le quali quella di don Luberto. Sono accusati, a seconda delle singole posizioni processuali, di reati che vanno dall’associazione per delinquere all’ appropriazione indebita, truffa, riciclaggio, furto e abbandono di persone minori o incapaci.

L’IMBARAZZO NELLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI PAOLA
Un procedimento che ha messo in “imbarazzo” anche il Palazzo di Giustizia: a Paola sono in organico soltanto due giudici delle indagini preliminari. Uno dei quali è il figlio dell’ex direttore sanitario dell’istituto Papa Giovanni XXIII. Il magistrato si è dunque astenuto ma in questo modo resta “disponibile” un solo gip che però, in caso di richieste di misure cautelari nei confronti degli indagati, per legge non può poi decidere anche sulle eventuali richieste di rinvio a giudizio nei confronti di quelle stesse persone. Insomma, il Papa Giovanni è una realtà difficile da gestire anche sotto il profilo giudiziario. Intanto, nei mesi scorsi, gli ultimi ricoverati a Serra d’Aiello sono stati sgomberati e trasferiti in altre strutture e il Papa Giovanni è stato definitivamente chiuso. All’udienza preliminare si sono costituite oltre 500 parti civili e anche la Curia, come ha annunciato il vicario generale dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano, monsignor Leonardo Bonanno, intende costituirsi parte civile. Le richieste di rinvio a giudizio la qualificano infatti “parte lesa”, al pari delle famiglie dei degenti abbandonati e degli scomparsi.

Tuttavia la posizione della Curia si è modificata, nel corso dell’inchiesta. Sulle prime anche l’ex vescovo Agostino era tra gli indagati. Il pm aveva trovato, agli atti, documenti con la firma del monsignore che “legavano”, almeno sul piano del concorso formale nel reato, il vescovo alle “imprese” di don Luberto. E nei primi interrogatori la linea difensiva del sacerdote-presidente collezionista di scarpe tendeva per l’appunto a proteggere il proprio operato dietro le autorizzazioni del vescovo. La Curia sapeva tutto: questa, in sintesi la posizione di Alfredo Luberto.

L’ARCIVESCOVO INDAGATO E’ IN DIFFICOLTA’
Il pm non si è perso d’animo: ha convocato il vescovo Agostino e gli ha mostrato i documenti e le autorizzazioni che portavano la sua firma. Questa firma non è mia, ha detto subito il vescovo. Ma una perizia grafica ha dimostrato il contrario. Convocato nuovamente in procura il vescovo ha cambiato posizione: Chi ha detto che quella firma non è mia? Ho detto che il timbro che c’è sopra non è quello originale. Ancora una volta il pm è andato a verificare: si è procurato i timbri originali e ha chiesto ad un esperto di confrontare. Dotto’, ha detto in sostanza l’esperto al pm, qua mi sembra che si tratti proprio dello stesso timbro. Uguale!

Il vescovo torna in procura: chi ha detto che il timbro non era quello originale? No, no, spiega il vescovo al magistrato. Il timbro va bene. Il problema è ciò che manca, non quello che c’è. Insomma qui, su queste autorizzazioni, manca la controfirma della cancelleria della Curia. Alla fine il vescovo c’ ha “azzeccato” (direbbe qualcuno che un tempo faceva il pubblico ministero): il pm Eugenio Facciolla, dopo una serie di accertamenti, ha ritenuto che quel timbro mancante potesse essere un punto debole sui documenti che rappresentavano gli elementi d’accusa a carico del vescovo Agostino.

DON ALFREDO LUBERTO CAMBIA DICHIARAZIONE E AFFERMA: HO TATTO TUTTO IO
Effettivamente quella mancanza potrebbe indicare che quegli atti non sono originali. Potrebbero essere stati contraffatti. Dunque per il vescovo Agostino è stata chiesta l’archiviazione. Intanto anche Luberto ha cambiato versione: non è vero che la Curia sapeva tutto. Anzi, la Curia non sapeva niente. Ho fatto tutto io. E’ tutta colpa mia. Una confessione che ha fatto tirare, immaginiamo, un sospiro di sollievo al vicario generale monsignor Bonanno. Come sempre, è colpa della pecora nera che però si è pentito ed è pronto a pagare il suo debito. Poi qualcuno, magari, rimetterà i suoi peccati.

NEL MONDO DELLA FEDE UNA MAGIA..
In attesa, ci pensa l’indulto del 2006: se Luberto dovesse chiedere di essere giudicato con il rito abbreviato, tra l’indulto che cancella una parte della pena, lo sconto di un terzo previsto dal rito abbreviato, il cosiddetto giudizio di bilanciamento tra attenuanti e aggravanti, il fatto che don Alfredo ha comunque già scontato sette mesi di arresti domiciliari, l’eventuale condanna non comporterà una reale detenzione. E se il cerchio si chiude con lui, con la sua confessione, non c’è ragione di preoccuparsi oltre.

UN AMMALATO COSTAVA 15 EURO MA NE PRENDEVANO 150
Ma il cerchio potrebbe restare aperto: oltre all’inchiesta che ha “partorito” l’udienza preliminare in corso , come abbiamo detto ce ne sono altri due tronconi. Uno riguarda le procedure di accreditamento e di rimborso sanitario che sono intercorse, negli anni, tra il Papa Giovanni e la Regione Calabria. A questo proposito il pm ha accertato che sebbene le prime segnalazioni sullo stato di degrado della struttura risalgano al 2002, fino al 2006 la Regione ha pagato senza pensare una sola volta di fare un’ispezione, un controllo, una verifica. Complessivamente si profila un danno erariale, secondo gli investigatori, per circa 150 milioni di euro. Basti pensare che, come ha verificato la Finanza, per ogni ricoverato al Papa Giovanni la Regione pagava 150 euro al giorno mentre la struttura spendeva, in realtà, tra 10 e 15 euro al giorno. Naturalmente la “differenza” era tutta nelle condizioni disumane in cui versavano i pazienti.

LO SCANDALO NELLO SCANDALO: I POVERI PAZIENTI SCOMPARSI
L’altro filone d’inchiesta riguarda specificamente i 12 casi di pazienti scomparsi di cui non si sono mai più avute notizie e i diversi episodi di decessi “accidentali” avvenuti dal 1995 in poi. Gli inquirenti sono al lavoro, ad esempio, sul caso di una donna che negli anni scorsi, ricoverata al Papa Giovanni, è stata trasportata al pronto soccorso di un ospedale vicino con una diagnosi di ictus cerebrale. In realtà, dalla denuncia presentata dai familiari, la donna era morta a causa di colpi ricevuti in testa. E nonostante una perizia medica avesse classificato il caso come “lesioni”, la procura di Paola (allora, diversi anni fa) aveva archiviato tutto. I casi di morti sospette sono diverse. In una circostanza il pm sta indagando sulla morte di un paziente il cui testamento individuava in un infermiere, che lo aveva assistito per anni, l’unico erede.

E’ su queste storie, oggi, che il pubblico ministero Eugenio Facciolla sta lavorando. Storie dalle quali, al di là delle responsabilità penali accertate, da accertare o – come nei casi di archiviazione – non provate, emerge una responsabilità della Curia vescovile che potrebbe essere soltanto di natura organizzativa o addirittura morale. In altre parole: chi ha riposto tutta la fiducia, e l’immagine della Chiesa e della carità cristiana, in don Alfredo Luberto? E soprattutto chi ha continuano a riporre in lui la fiducia nonostante alcuni segnali non proprio rassicuranti, di gran lunga precedenti alle inchieste giudiziarie. Non è un bene per la collettività, per la comunità cristiana, che tutte le responsabilità si riducano al codice penale. Non è un caso che tra i dieci comandamenti ce n’è, è vero, qualcuno che richiama direttamente reati (non uccidere, non rubare) ma altri richiamano a responsabilità che con il codice penale non hanno – fortunatamente – nulla a che fare. E che pure, però, hanno il loro peso. Anzi, se maggiormente se ne riconoscesse il peso, in misura proporzionalmente minore ci sarebbe bisogno delle sanzioni del codice penale. Il diritto, non quello penale ma quello civile – ad esempio – prevede anche la culpa in eligendo (ossia la colpa di scegliere le persone sbagliate), la culpa in vigilando (cioè la colpa di non aver vigilato sufficientemente): mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

SALVATORE NUNNARI ARCIVESCOVO DI COSENZA – BISIGNANO
Rimane il fatto che la questione dell’Istituto Papa Giovanni XXII di Serra d’Aiello che l’Arcidiocesi di Cosenza Bisignano ha affidato a Don Alfredo Luberto, è una delle più brutte pagine di cronaca giudiziaria e nera d’Italia in tempi di non belligeranza. L’Istituto Papa Giovanni XXIII di Serra ‘D’Aiello (Cosenza) ha svelato la reale fisionomia del “Modus Operandi” di coloro i quali hanno rappresentato politica e culto divino nel territorio delle Provincia di Cosenza. Una politica del fare non finalizzata al bene comune ma al “volemose bene”. Al di là dei timbri veri o falsi dell’Arcidiocesi apposti sui documenti del responsabile don Alfredo Luberto, poi condannato, rimane il fatto grave, anzi gravissimo, che un Arcivescovo non può non sapere. E chi opera nel mondo della Chiesa sa bene che è così. Quin non si parla della gestione di una casa famiglia o di una parrocchia di campagna. Si tratta di uno dei maggiori pilastri del mondo della sanità, dell’occupazione e del lavoro del territorio regionale della Calabria. Dopo Mons D’Agostino l’Arcidiocesi di Cosenza Bisignano è stata affidata a S. E. Mons. Salvatore Nunnari che ha subìto da vescovo in carica tutto il periodo del processo e anche le conseguenza dell’opinione pubblica. Un bravo sacerdote che lavora nell’Arcidiocesi ha riferito che era pericoloso anche uscire in auto dall’ufficio tanta era la tensione del popolo contro il clero del territorio. Ciò significa che il popolo, lo stesso popolo di lavoratori che, ad un certo punto si sono sentiti abbandonati, ha reagito. Evidentemente, Mons. Salvatore Nunnari ha ritenuto di applicare la regola: “se la tua mano va in cancrena, tagliala, prima che vada in cancrena tutto il braccio”. E si sa, che dopo il braccio c’è la testa che bisogna proteggere ad ogni costo. Forse per questo don Alfredo Luberto che in un primo momento afferma ciò che gli sembrava ovvio “la Diocesi sa tutto”, in un secondo momento dice” il responsabile sono solo io”. Così facendo la mano che ha rubato è tagliata, il braccio è salvo e la testa…pure.

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